(Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità)
SENTENZA
N. 134 ANNO 1997
composta
dai signori:
·
Dott. Renato GRANATA Presidente
·
Prof. Giuliano
VASSALLI Giudice
·
Prof. Cesare MIRABELLI
“
·
Prof. Fernando
SANTOSUOSSO “
·
Avv. Massimo VARI “
·
Dott. Cesare RUPERTO “
·
Dott. Riccardo CHIEPPA
“
·
Prof. Gustavo ZAGREBELSKY “
·
Prof. Valerio ONIDA “
·
Avv. Fernanda CONTRI “
·
Prof. Guido NEPPI
MODONA “
·
Prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI “
ha
pronunciato la seguente
nel
giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 7, della legge 30
dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), promosso
con ordinanza emessa il 28 marzo 1996 dal Tribunale amministrativo regionale
per il Veneto sui ricorsi riuniti proposti da …. (omissis) … contro
l’Università degli Studi di Padova iscritta al n. 599 del registro ordinanze
1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27 prima serie
speciale dell’anno 1996;
Visto
l’atto di costituzione di ..(omissis).. nonché l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica dell’11 febbraio 1997 il Giudice relatore Piero Alberto
Capotosti;
uditi
gli avvocati Mario Bertolissi e Luigi Manzi per .. (omissis) ..e l’Avvocato
dello Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri
Ritenuto
in fatto
1. —Sei professori ordinari della Facoltà di
giurisprudenza dell’Università degli studi di Padova hanno impugnato innanzi al
Tribunale amministrativo regionale per il Veneto i provvedimenti del Rettore di
detta Università, di rigetto delle loro istanze dirette ad ottenere il
“passaggio al regime di tempo-pieno compatibile con l’attività libero
professionale”. Le domande erano state proposte, invocando l’applicazione
dell’art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, che consente ai
docenti universitari, i quali abbiano scelto il regime del tempo-pieno, di
esercitare attività libero-professionale, qualora prestino attività
assistenziale ai sensi dell’art. 39 legge 23 dicembre 1978 n. 833.
Il Tribunale amministrativo, con ordinanza del 28 marzo 1996, in
accoglimento dell’eccezione formulata dai ricorrenti, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale della norma dell’art. 4, comma 7, legge n. 412 del
1991, nella parte in cui non estende a tutti i docenti universitari a
tempo-pieno la facoltà di espletare attività libero-professionale, in quanto
violerebbe gli artt. 3 e 97 della Costituzione.
1.1 - La norma sospettata di incostituzionalità,
ad avviso dei giudici rimettenti, è ispirata dall’intento di parificare, quanto
alla compatibilità dell’attività libero-professionale con il regime del
tempo-pieno, la posizione dei docenti universitari operanti nelle cliniche
universitarie a quella dei medici ospedalieri, secondo una valutazione
discrezionale.
L’equiparazione
si riflette sullo status dei docenti universitari delle altre facoltà e
consente il confronto con questi ultimi quanto alla diversa regolamentazione
delle incompatibilità. Dalla comparazione tra le differenti discipline emerge
una disparità di trattamento che non sembra ragionevole.
Il
Tar rimettente osserva che la funzione docente è sostanzialmente unitaria.
Quella supplementare ed aggiuntiva di assistenza sanitaria, che si compenetra
con l’attività didattico-scientifica, non costituisce elemento idoneo a
giustificare la diversità della disciplina dell’incompatibilità. L’attività
assistenziale connessa a quella docente svolta a tempo-pieno, perché
particolarmente impegnativa, è, infatti, addirittura meno compatibile con
quella libero-professionale di quanto non lo sia l’attività di insegnamento a
tempo-pieno espletata dai docenti di materie diverse.
L’impossibilità
di rinvenire una plausibile giustificazione della diversità di trattamento,
neppure identificabile nella finalità della norma, di parificare i docenti
universitari clinici ai sanitari ospedalieri, fonda il dubbio della violazione
dei principi di eguaglianza, ragionevolezza, imparzialità e buon andamento
dell’ammini-strazione, stabiliti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione.
2. —Nel giudizio davanti alla Corte è intervenuto
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque
infondata e formulando espressa riserva di integrare le argomentazioni a
conforto di tale deduzione.
3. —Si sono costituiti in giudizio i ricorrenti
nel processo amministrativo, i quali hanno concluso per la dichiarazione di
illegittimità costituzionale della norma dell’art. 4, comma 7, della legge n.
412 del 1991.
Le parti private osservano che la disciplina delle incompatibilità, per
la parte di interesse, è dettata dall’art. 11 del d.P.R. 11 luglio 1980, n.
382. La norma, nel testo modificato dall’art. 3 della legge 18 marzo 1989, n.
118, consente al docente che abbia optato per il regime del tempo-pieno, di
svolgere attività “per conto di amministrazioni dello Stato, enti pubblici e
organismi a prevalente partecipazione statale, purché prestate in quanto
esperti nel proprio campo disciplinare e compatibilmente con l’assolvimento dei
propri compiti istituzionali” ( comma 4, lettera a).
La lettera della disposizione, a loro avviso,
dimostra che il regime del tempo-pieno non è, in assoluto, incompatibile con
l’esercizio dell’attività libero-professionale, che è, anzi, consentito, purché
ciò non contrasti con l’obbligo dell’”assolvimento dei propri compiti
istituzionali”.
L’art. 102 del d.P.R. n. 382 del 1980 regola, invece, le “attività
assistenziali” svolte dai professori ordinari o associati e dai ricercatori
nell’ambito delle convenzioni stipulate tra l’Università e la Regione, nonché
tra Università ed Unità sanitarie locali, e realizza la parificazione tra il
personale medico dei ruoli universitari e quello del Servizio sanitario
nazionale attraverso l’indicazione di una tabella di “corrispondenze
funzionali”.
L’esigenza di equiparazione è stata soddisfatta dalle norme istitutive
del Servizio sanitario nazionale e da quelle, connesse, recanti la disciplina
del personale da esse dipendente. L’art. 102 cit. è stato, infatti, formulato
alla luce dell’art. 39 della legge n. 833 del 1978 e dell’art. 31 del d.P.R. 20
dicembre 1979, n. 761, norma quest’ultima che prevede la corresponsione a
favore del “personale universitario che presta servizio presso i policlinici,
le cliniche e gli istituti universitari di ricovero e cura convenzionati con le
Regioni e con le unità sanitarie locali, anche se gestiti direttamente dalle
Università”, di una “indennità ... nella misura occorrente per equiparare il
relativo trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità
sanitarie locali di pari funzioni, mansioni e anzianità”.
La disciplina dei regimi di tempo-pieno e
tempo-definito, quanto alle incompatibilità, era, invece, assolutamente
unitaria nell’ambito dell’Università, dato che non era stabilita alcuna
discriminazione in favore del personale medico universitario, che espletava
attività assistenziale.
La situazione è stata, quindi, radicalmente innovata
dall’art. 4, comma 7, legge n. 412 del 1991, che ha introdotto la distinzione
tra docenti universitari per i quali l’attività libero-professionale è
incompatibile con il regime del tempo-pieno e docenti per i quali è stabilito
il diverso principio della compatibilità, purché detta attività sia esercitata
al di fuori dell’orario di lavoro.
3.1. —Le parti private deducono, altresì, che il
Consiglio di Stato, sezione II, nel rendere il parere 1° aprile 1992 n. 446, su
quesiti proposti dal Ministro dell’Università e della Ricerca scientifica e
tecnologica, ha affermato che la norma in esame è applicabile al solo personale
universitario medico e, per tale conclusione, “potrebbero delinearsi
conseguenze di ordine costituzionale in relazione al diverso trattamento
riservato ai docenti a tempo pieno delle altre Facoltà ed ai docenti non
‘medici’ operanti all’interno della stessa Facoltà di Medicina e Chirurgia”.
La sintetica, puntuale, considerazione farebbe piena luce “sulla
portata ed i limiti (costituzionali) dell’art. 4, comma 7, della legge n. 412
del 1991, là dove essa, attraverso equiparazioni successive (del medico
universitario al medico ospedaliero) omette di trarre un’implicazione ulteriore
necessitata”, che imporrebbe di estendere anche al restante personale docente
dell’Università la disciplina dettata per il personale medico universitario.
L’indennità perequativa prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 761 del
1979, assumono i ricorrenti, è attribuita ai medici universitari a tempo-pieno
o a tempo-definito nella misura necessaria a parificare la posizione economica
a quella dei medici ospedalieri, al fine di compensare le attività
assistenziali svolte anche dai primi ed è, quindi, inidonea a fungere da
tertium comparationis, costituendo lo strumento utilizzato per dare concreta
attuazione al principio costituzionale di uguaglianza in riferimento a detto
profilo.
Nel caso di specie, assunti come primi due termini del confronto lo
status di docente universitario (disciplinato dal d.P.R. n. 382 del 1980) e
l’art. 3 della Costituzione, il tertium comparationis è, invece, costituito
dallo status di docente universitario medico operante in regime di convenzione,
connotato dalla compatibilità del regime di tempo-pieno (che comporta l’obbligo
di svolgere attività per 350 ore l’anno, anziché per 250) con l’attività
libero-professionale.
Pertanto, se l’elemento comune è costituito dall’identità delle
posizioni, comune a tutti i docenti universitari deve essere lo status, anche
quanto alla disciplina delle incompatibilità.
3.2. —La circostanza che l’art. 4, comma 7, della
legge n. 412 del 1991, stabilisce la compatibilità dell’attività
libero-professionale con il regime del tempo-pieno, purché espletata “fuori
dell’orario di lavoro all’interno delle strutture sanitarie o all’esterno delle
stesse” e con esclusione di quelle convenzionate, ad avviso dei ricorrenti, non
può far escludere la lamentata violazione, concernendo mere modalità operative
caratterizzanti una determinata professionalità, in ragione delle proprie
specifiche caratteristiche.
La verifica del rispetto del principio di uguaglianza, poiché implica
il controllo della ragionevolezza delle classificazioni legislative, non si
risolve nel riscontro dell’intrinseca bontà delle scelte operate dal
legislatore, ma richiede si accerti la coerenza delle differenziazioni,
valutata nel rapporto con il trattamento che le leggi riservano ad altre
categorie e ad altre fattispecie comparabili con quella contestata.
Nel controllo dell’osservanza di tale canone costituzionale non sono,
quindi, coinvolti due soli termini, la norma legislativa impugnata ed il
principio stabilito dall’art. 3, primo comma, della Costituzione, bensì anche
un terzo termine (tertium comparationis), costituito dalla disciplina o dalle
discipline messe a raffronto con quella di cui si eccepisce l’illegittimità.
Attraverso tale confronto, qualora si chieda l’estensione di un beneficio
conferito dalla legge ad una certa classe di soggetti che assume trovarsi in
condizioni analoghe, è possibile accertarne l’eventuale irragionevolezza, nel
caso dalla norma derivino privilegi per determinate categorie, in carenza di
ogni valida giustificazione.
L’omogeneità delle situazioni impone, quindi, l’uniformità della
disciplina, in difetto di ragioni che possano legittimarne la diversità.
La richiesta estensione dell’ art. 4, comma 7, della legge n. 412 del
1991, non esclude, infine, l’obbligo di esercitare l’attività
libero-professionale “al di fuori dell’orario di lavoro” e la norma derivante
dalla eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale risulterebbe,
dunque, anche compatibile “con l’assolvimento dei propri compiti
istituzionali”, che costituisce il presupposto che ne condiziona l’espletamento
in caso di opzione per il regime del tempo-pieno.
3.3. —Le parti private, in prossimità dell’udienza,
hanno depositato memoria, e, nel reiterare le argomentazioni già svolte,
deducono che peculiare rilievo assume la considerazione del carattere
innovativo della norma in parte qua, conseguita dalla modificazione della
disciplina stabilita per i medici-ospedalieri e non giustificata da ragioni
attinenti allo status dei docenti universitari-medici.
Inoltre, a loro avviso, la progressiva restrizione dell’incompatibilità
tra tempo-pieno ed attività libero-professionale, realizzata attraverso la
previsione dell’ammissibilità di quella svolta in favore di enti pubblici da
parte di tutti i docenti universitari e, successivamente, di quella espletata
anche in favore dei privati dai docenti-medici, inficia la stessa ratio che
impronta la regola dell’incompatibilità e le ragioni che potrebbero limitarla
nei confronti di alcuni.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale neppure determinerebbe
effetti pregiudizievoli per l’erario, non solo e non tanto per l’esiguo numero
dei docenti che potrebbero invocarne l’applicazione, quanto perché la
liberalizzazione dell’attività condurrebbe addirittura ad un incremento del
gettito fiscale, in diretta conseguenza dell’ampliamento della base imponibile.
Le parti private osservano, infine, che non influisce sulla rilevanza
della questione l’innovazione introdotta dall’art. 1 della legge 23 dicembre
1996, n. 662, perché la norma, al comma 5, ha espressamente fatta salva la
disciplina dettata dall’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991 e
stabilito che l’opzione per l’attività libero-professionale intramuraria
preclude l’espletamento di quella extramuraria.
4. —L’Avvocatura dello Stato ha parimenti
depositato memoria in prossimità dell’udienza, reiterando l’eccezione di
inammissibilità della questione, per difetto di motivazione sulla sua rilevanza
ed insistendo, in linea gradata, per la sua l’infondatezza.
Il personale medico dei ruoli universitari, che espleta attività
assistenziale, assume i diritti ed i doveri stabili a carico dei medici
dipendenti del Servizio sanitario nazionale (art. 162 del d.P.R. n. 382 del
1980), sicché l’applicabilità della norma censurata deriva logicamente
conseguenziale dal particolare status che li caratterizza.
Pertanto, ad avviso dell’Avvocatura, non è configurabile la lamentata
disparità di trattamento, dato “che per il personale di cui all’art. 102
l’incompatibilità dell’attività libero-professionale viene riferita al
tempo-pieno dell’attività assistenziale avente natura diversa rispetto al
regime di impegno a tempo-pieno dei docenti di altre materie”, i quali possono
comunque espletarla optando per il tempo-definito.
In conclusione, i docenti universitari medici, in virtù della duplice
funzione assolta, si trovano in una posizione non comparabile con quella degli
altri docenti e, quindi, difetta la condizione necessaria per poter sostenere
l’esistenza della denunziata disparità di trattamento.
5. —All’udienza pubblica le parti private e
l’Avvocatura dello Stato hanno insistito nelle conclusioni rassegnate nelle
difese scritte.
1. —La questione di legittimità costituzionale
proposta dall’ordinanza in epigrafe riguarda la norma dell’art. 4, comma 7,
della legge 30 dicembre 1991 n. 412 (Disposizioni in materia di finanza
pubblica), nella parte in cui non estende a tutti i docenti universitari a
tempo pieno la possibilità di espletare attività libero-professionale. La norma,
della cui legittimità costituzionale si dubita, perseguirebbe infatti, secondo
i giudici rimettenti, lo scopo di equiparare, per quanto attiene alla
compatibilità dell’attività libero-professionale con il regime del tempo pieno
universitario, la posizione dei medici universitari operanti nelle cliniche
universitarie con quella dei medici ospedalieri. La equiparazione operata dalla
suddetta norma, però, porrebbe in luce una ingiustificata diversità di
trattamento, sotto il prospettato profilo dell’espletabilità dell’attività
libero-professionale, tra i predetti docenti della Facoltà di medicina ed i
docenti delle altre Facoltà, così da porre il dubbio della violazione dei
principi di eguaglianza e di buon andamento dell’amministrazione, stabiliti
dagli artt. 3 e 97 della Costituzione.
2. —La questione non è fondata, in riferimento ad
entrambi i profili prospettati.
La premessa dell’ordinanza di rimessione è che non esiste alcun
plausibile criterio che giustifichi una diversità di trattamento legislativo della
compatibilità tra il tempo pieno e l’attività libero-professionale, a seconda
che i docenti universitari svolgano o meno un’attività di assistenza sanitaria;
comunque non può esserlo, di per sé solo, il criterio di equiparazione dei
docenti universitari medici, che operano nelle cliniche, ai medici ospedalieri.
Tale premessa non è condivisibile, poiché la specialità della norma
impugnata, che concerne il regime delle incompatibilità e delle attività
libero-professionali del personale medico del Servizio sanitario nazionale, in
cui rientrano anche i medici universitari che esplicano attività sanitaria
assistenziale, non consente il raffronto con il prospettato tertium
comparationis, poiché la predetta norma fa corpo unico con una complessiva
disciplina, che, quanto ad oggetto, caratteri e finalità, non appare
comparabile con altra disciplina, per difetto di omogeneità. Si consideri
infatti che la disposizione in questione è un frammento di un più ampio sistema
normativo, che regola, in particolare, forme e limiti delle prestazioni di
assistenza sanitaria ospedaliera. E’ in questo contesto specifico, pertanto,
che la norma impugnata deve essere sottoposta allo scrutinio della Corte.
3. —La “compenetrazione” tra l’attività sanitaria
assistenziale e quella didattico-scientifica dei docenti universitari della
Facoltà di medicina, che operano nelle cliniche e negli istituti universitari
di ricovero e cura, è appunto il dato caratterizzante le loro funzioni ed il
conseguente stato giuridico. Ed è già stato posto in luce dalla giurisprudenza
di questa Corte (sentenze nn. 103 del 1977, 126 del 1981, ordinanza n. 239 del
1990), come proprio questo profilo connoti il complessivo andamento della
legislazione in materia. Si può affermare infatti che il collegamento tra
istituti universitari di ricovero e cura e strutture ospedaliere, da un lato,
ed il connesso raccordo tra esigenze didattico-scientifiche ed esigenze di
assistenza ospedaliera, dall’altro lato, siano una costante del sistema, anche
se attuata in forme e modalità profondamente diverse ad iniziare dalla
legislazione dell’Ottocento per finire a quella dei nostri giorni.
In questo senso, si può dire che già nel r.d.l. 10
febbraio 1924, n. 549 si consolida la tendenza, instaurata dalla legge 17
luglio 1890, n. 6972, ad un rapporto di sostanziale strumentalità, su base
convenzionale, delle istituzioni ospedaliere rispetto agli istituti
universitari -dando luogo a forme di c.d. “clinicizzazione degli ospedali”- e,
in questo quadro, va rilevato che i sanitari universitari, che sono investiti
della direzione e della responsabilità dei reparti clinico-ospedalieri, sono
peraltro tenuti a prestare in essi servizio, dimostrando così la stretta
connessione tecnica fra ricerca scientifica, insegnamento clinico e cura degli
ammalati.
La riforma ospedaliera del 1968 sviluppa e rafforza
le forme di necessaria partecipazione delle Facoltà di medicina all’erogazione
dell’assistenza sanitaria, poiché, come si legge nei relativi lavori
preparatori, uno degli obiettivi principali è proprio “la promozione della
massima integrazione e collaborazione, nel rispetto reciproco, dell’ospedale
con l’università, nell’interesse supremo del malato, per l’esigenza della
salute pubblica e per il progresso della medicina”. In questo contesto di un
più efficiente perseguimento del fondamentale interesse della collettività alla
tutela della salute, garantita dall’art. 32 della Costituzione, non appare
quindi irragionevole che il legislatore abbia disposto, nell’art.1, terzo
comma, della legge 12 febbraio 1968, n. 132, che le cliniche e gli istituti
universitari fossero funzionalmente tenuti all’assistenza ospedaliera,
chiamando così l’università, con le sue cliniche, i suoi istituti, il suo
personale sanitario addetto agli ospedali, totalmente o parzialmente
clinicizzati, a dare un prezioso contributo al conseguimento di questo
obiettivo (sentenza n. 103 del 1977).
E non appare altresì irragionevole che il personale
sanitario universitario venga assimilato nelle qualifiche al personale
sanitario ospedaliero e che ad esso si applichino “diritti e doveri” dei
sanitari ospedalieri (art. 3 del d.P.R. n. 129 del 1969), così da rendere i
medici universitari “soggetti agli obblighi ed alle responsabilità inerenti
all’esercizio delle relative funzioni” (sentenza n. 126 del 1981). In questa
ottica, appare pertanto congruo e ragionevole che ad essi siano state estese,
fin dall’art. 24 del d.P.R. n. 130 del 1969, modalità di prestazione del
servizio dettate per questi ultimi, a cominciare dalla opzione tra il servizio
“a tempo pieno” e quello “a tempo definito”, per finire alle relative
incompatibilità rispetto all’espletamento dell’attività libero-professionale.
Si tratta quindi di disposizioni non isolate, ma inserite in un
coerente disegno legislativo, che si propone, in particolare, di adeguare
ordinamento interno e modello organizzativo dei servizi di assistenza delle
cliniche e degli istituti universitari di ricovero e cura ai corrispondenti
servizi ospedalieri.
4. —D’altra parte, anche nella normativa inerente
alla istituzione del Servizio sanitario nazionale è evidente il mantenimento
della stessa ratio, poiché sono rinvenibili disposizioni (art. 47, comma terzo,
numero 7, della legge 23 dicembre 1978, n. 833, art. 31 del d.P.R. 20 dicembre
1979, n. 761), le quali espressamente stabiliscono l’omogeneità del trattamento
economico complessivo e degli istituti normativi di carattere economico del
personale sanitario del ruolo regionale con quelli del personale sanitario
universitario. Più in particolare, per quanto concerne la disciplina del
rapporto a tempo pieno e a tempo definito ed i connessi limiti di svolgimento
dell’attività libero-professionale, l’art. 35 del d.P.R. n. 761 del 1979 ne
prevede l’applicabilità anche ai docenti universitari medici, sia pure con la
precisazione che il loro orario settimanale di servizio, comprensivo delle
mansioni didattiche, di ricerca e assistenziali, è globalmente considerato
corrispondente rispettivamente al rapporto di tempo pieno o definito,
confermando così ulteriormente la “compenetrazione” tra i diversi profili
dell’attività dei medici universitari.
Si consideri inoltre, per quanto può rilevare ai fini di una più
compiuta analisi della ragionevolezza di questa disciplina, che la prospettata
tendenza legislativa, già sottolineata da questa Corte, ad integrare le Facoltà
universitarie di medicina (con le relative risorse umane e materiali) nel
complessivo disegno di realizzazione dei fini propri del Servizio sanitario
nazionale è ancor più rafforzata dalle disposizioni della successiva legge 23
ottobre 1992, n. 421 e del relativo decreto delegato 30 dicembre 1992, n. 502.
Si stabilisce infatti che i policlinici universitari, inseriti nel sistema di
emergenza sanitaria, costituiscono aziende universitarie dotate di autonomia e
le cui modalità organizzative e gestionali, pur nel rispetto dei fini
istituzionali, debbono essere analoghe a quelle fissate per le aziende
ospedaliere. Si conferma quindi, anche in queste disposizioni, la scelta
legislativa per un peculiare modello organizzativo sanitario, che ovviamente
comprende anche le norme sulle prestazioni professionali e sulle relative
incompatibilità del personale sanitario.
5. —Va altresì osservato che la particolare
caratterizzazione dell’attività del personale docente, che esplica attività
assistenziale presso le cliniche e gli istituti universitari di ricovero e
cura, trova specifico rilievo e significativa conferma anche nella legislazione
sulla docenza universitaria. Basti considerare soltanto che la legge delega 21 febbraio
1980, n.28, da un lato, contiene, nell’art. 4, statuizioni sull’attività
didattica e di ricerca di tutti i docenti universitari, ivi compresi ovviamente
i medici universitari, dall’altro lato, nell’art. 12, lettera c), prevede che a
questi ultimi - e solo ad essi - si applichino anche le norme relative ai
diritti ed ai doveri, per quanto concerne l’assistenza, del personale del
Servizio sanitario nazionale. In attuazione di questa disposizione, l’art. 102
del decreto delegato 11 luglio 1980, n. 382 stabilisce appunto che i predetti
docenti “assumono, per quanto concerne l’assistenza, i diritti ed i doveri
previsti per il personale di corrispondente qualifica del ruolo regionale” e
che il loro rapporto di lavoro “può essere a tempo pieno o a tempo definito
secondo le disposizioni previste dall’art. 35 del d.P.R. 20 dicembre 1979, n.
761”.
Questa disposizione riconosce dunque la speciale posizione, sotto il
profilo delle modalità di prestazione dell’assistenza sanitaria, dei docenti
universitari medici e, attraverso il rinvio formale alla norma di legge che
detta le regole dei regimi di tempo pieno e definito espressamente applicabili
al personale medico del ruolo regionale, assume dunque un chiaro contenuto
derogatorio della generale disciplina delle incompatibilità e degli impegni
propri di tutti i docenti universitari. Lo stesso art. 102 costituisce quindi,
anche se sotto altro profilo, ulteriore conferma della coerenza del complessivo
disegno legislativo, che, sulla base dell’inserimento delle Facoltà di medicina
nell’articolato apparato preposto al conseguimento degli obiettivi del Servizio
sanitario nazionale, non può non tener conto delle peculiarità dell’apporto
garantito dalla loro struttura e dal loro personale, al fine di prevedere una
disciplina, che mantenga l’organicità e la funzionalità del sistema.
In questa ottica, è quindi ragionevole che la disciplina della
posizione dei medici universitari sia condizionata dalle esigenze
organizzativo-funzionali dei servizi di assistenza, cui sono preposti; esigenze
tanto più rilevanti, quanto più diviene intensa la partecipazione funzionale
delle Facoltà di medicina al Servizio sanitario nazionale.
6. —Sotto questi profili, dunque, va confermata
la precedente giurisprudenza di questa Corte, che aveva già dichiarato che “non
può non riconoscersi al legislatore, in sede di riforma dell’assistenza
ospedaliera pubblica, la potestà di ampliare e potenziare l’apporto, in tale
ambito, delle università, e di disciplinare all’uopo in modo unitario
l’omogeneo rapporto di servizio assistenziale del personale sanitario
ospedaliero ed universitario, fatto salvo per quest’ultimo l’adempimento dei
compiti didattici e di ricerca scientifica” (sentenza n. 103 del 1977). In
questo quadro pertanto la norma censurata non determina alcuna irragionevole
disparità di trattamento.
D’altra parte, il legislatore ha disciplinato le incompatibilità dei
docenti universitari medici in modo autonomo rispetto agli altri docenti
universitari e molto prima della legge n. 412 del 1991, dato che già il d.P.R.
n. 129 del 1969 aveva per essi previsto forme di incompatibilità sconosciute
agli altri docenti universitari (ma ritenute non illegittime da questa Corte
nella stessa sentenza n. 103 del 1977), anche in considerazione dell’obiettivo di
coordinamento e potenziamento dell’apporto dell’università ai fini della tutela
della salute.
Le peculiari finalità perseguite dalla norma censurata, in un quadro di
ragionevole “compenetrazione” tra attività didattico-scientifica ed attività
assistenziale, appaiono quindi congrue e tali da escludere anche possibili
incidenze negative sul canone di buon andamento dell’amministrazione.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
l’8 maggio 1997.
Renato
GRANATA, Presidente
Piero
Alberto CAPOTOSTI, Redattore.
Depositata
in cancelleria il 16 maggio 1997.