(Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità)

 

 

SENTENZA N. 134  ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

·        Dott. Renato GRANATA                     Presidente

·        Prof. Giuliano VASSALLI                     Giudice

·        Prof. Cesare MIRABELLI                           

·        Prof. Fernando SANTOSUOSSO               

·        Avv. Massimo VARI                                       

·        Dott. Cesare RUPERTO                           

·        Dott. Riccardo CHIEPPA                               

·        Prof. Gustavo ZAGREBELSKY                 

·        Prof. Valerio ONIDA                                   

·        Avv. Fernanda CONTRI                           

·        Prof. Guido NEPPI MODONA                         

·        Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI                        

 

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), promosso con ordinanza emessa il 28 marzo 1996 dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto sui ricorsi riuniti proposti da …. (omissis) … contro l’Università degli Studi di Padova iscritta al n. 599 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27 prima serie speciale dell’anno 1996;

Visto l’atto di costituzione di ..(omissis).. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’11 febbraio 1997 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;

uditi gli avvocati Mario Bertolissi e Luigi Manzi per .. (omissis) ..e l’Avvocato dello Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri

 

 

Ritenuto in fatto

 

1.  —Sei professori ordinari della Facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Padova hanno impugnato innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Veneto i provvedimenti del Rettore di detta Università, di rigetto delle loro istanze dirette ad ottenere il “passaggio al regime di tempo-pieno compatibile con l’attività libero professionale”. Le domande erano state proposte, invocando l’applicazione dell’art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, che consente ai docenti universitari, i quali abbiano scelto il regime del tempo-pieno, di esercitare attività libero-professionale, qualora prestino attività assistenziale ai sensi dell’art. 39 legge 23 dicembre 1978 n. 833.

 

Il Tribunale amministrativo, con ordinanza del 28 marzo 1996, in accoglimento dell’eccezione formulata dai ricorrenti, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma dell’art. 4, comma 7, legge n. 412 del 1991, nella parte in cui non estende a tutti i docenti universitari a tempo-pieno la facoltà di espletare attività libero-professionale, in quanto violerebbe gli artt. 3 e 97 della Costituzione.

1.1  - La norma sospettata di incostituzionalità, ad avviso dei giudici rimettenti, è ispirata dall’intento di parificare, quanto alla compatibilità dell’attività libero-professionale con il regime del tempo-pieno, la posizione dei docenti universitari operanti nelle cliniche universitarie a quella dei medici ospedalieri, secondo una valutazione discrezionale.

 

L’equiparazione si riflette sullo status dei docenti universitari delle altre facoltà e consente il confronto con questi ultimi quanto alla diversa regolamentazione delle incompatibilità. Dalla comparazione tra le differenti discipline emerge una disparità di trattamento che non sembra ragionevole.

Il Tar rimettente osserva che la funzione docente è sostanzialmente unitaria. Quella supplementare ed aggiuntiva di assistenza sanitaria, che si compenetra con l’attività didattico-scientifica, non costituisce elemento idoneo a giustificare la diversità della disciplina dell’incompatibilità. L’attività assistenziale connessa a quella docente svolta a tempo-pieno, perché particolarmente impegnativa, è, infatti, addirittura meno compatibile con quella libero-professionale di quanto non lo sia l’attività di insegnamento a tempo-pieno espletata dai docenti di materie diverse.

L’impossibilità di rinvenire una plausibile giustificazione della diversità di trattamento, neppure identificabile nella finalità della norma, di parificare i docenti universitari clinici ai sanitari ospedalieri, fonda il dubbio della violazione dei principi di eguaglianza, ragionevolezza, imparzialità e buon andamento dell’ammini-strazione, stabiliti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione.

2.  —Nel giudizio davanti alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata e formulando espressa riserva di integrare le argomentazioni a conforto di tale deduzione.

 

3.  —Si sono costituiti in giudizio i ricorrenti nel processo amministrativo, i quali hanno concluso per la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma dell’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991.

 

Le parti private osservano che la disciplina delle incompatibilità, per la parte di interesse, è dettata dall’art. 11 del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382. La norma, nel testo modificato dall’art. 3 della legge 18 marzo 1989, n. 118, consente al docente che abbia optato per il regime del tempo-pieno, di svolgere attività “per conto di amministrazioni dello Stato, enti pubblici e organismi a prevalente partecipazione statale, purché prestate in quanto esperti nel proprio campo disciplinare e compatibilmente con l’assolvimento dei propri compiti istituzionali” ( comma 4, lettera a).

La lettera della disposizione, a loro avviso, dimostra che il regime del tempo-pieno non è, in assoluto, incompatibile con l’esercizio dell’attività libero-professionale, che è, anzi, consentito, purché ciò non contrasti con l’obbligo dell’”assolvimento dei propri compiti istituzionali”.

L’art. 102 del d.P.R. n. 382 del 1980 regola, invece, le “attività assistenziali” svolte dai professori ordinari o associati e dai ricercatori nell’ambito delle convenzioni stipulate tra l’Università e la Regione, nonché tra Università ed Unità sanitarie locali, e realizza la parificazione tra il personale medico dei ruoli universitari e quello del Servizio sanitario nazionale attraverso l’indicazione di una tabella di “corrispondenze funzionali”.

L’esigenza di equiparazione è stata soddisfatta dalle norme istitutive del Servizio sanitario nazionale e da quelle, connesse, recanti la disciplina del personale da esse dipendente. L’art. 102 cit. è stato, infatti, formulato alla luce dell’art. 39 della legge n. 833 del 1978 e dell’art. 31 del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, norma quest’ultima che prevede la corresponsione a favore del “personale universitario che presta servizio presso i policlinici, le cliniche e gli istituti universitari di ricovero e cura convenzionati con le Regioni e con le unità sanitarie locali, anche se gestiti direttamente dalle Università”, di una “indennità ... nella misura occorrente per equiparare il relativo trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità sanitarie locali di pari funzioni, mansioni e anzianità”.

La disciplina dei regimi di tempo-pieno e tempo-definito, quanto alle incompatibilità, era, invece, assolutamente unitaria nell’ambito dell’Università, dato che non era stabilita alcuna discriminazione in favore del personale medico universitario, che espletava attività assistenziale.

La situazione è stata, quindi, radicalmente innovata dall’art. 4, comma 7, legge n. 412 del 1991, che ha introdotto la distinzione tra docenti universitari per i quali l’attività libero-professionale è incompatibile con il regime del tempo-pieno e docenti per i quali è stabilito il diverso principio della compatibilità, purché detta attività sia esercitata al di fuori dell’orario di lavoro.

3.1. —Le parti private deducono, altresì, che il Consiglio di Stato, sezione II, nel rendere il parere 1° aprile 1992 n. 446, su quesiti proposti dal Ministro dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica, ha affermato che la norma in esame è applicabile al solo personale universitario medico e, per tale conclusione, “potrebbero delinearsi conseguenze di ordine costituzionale in relazione al diverso trattamento riservato ai docenti a tempo pieno delle altre Facoltà ed ai docenti non ‘medici’ operanti all’interno della stessa Facoltà di Medicina e Chirurgia”.

 

La sintetica, puntuale, considerazione farebbe piena luce “sulla portata ed i limiti (costituzionali) dell’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, là dove essa, attraverso equiparazioni successive (del medico universitario al medico ospedaliero) omette di trarre un’implicazione ulteriore necessitata”, che imporrebbe di estendere anche al restante personale docente dell’Università la disciplina dettata per il personale medico universitario.

L’indennità perequativa prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 761 del 1979, assumono i ricorrenti, è attribuita ai medici universitari a tempo-pieno o a tempo-definito nella misura necessaria a parificare la posizione economica a quella dei medici ospedalieri, al fine di compensare le attività assistenziali svolte anche dai primi ed è, quindi, inidonea a fungere da tertium comparationis, costituendo lo strumento utilizzato per dare concreta attuazione al principio costituzionale di uguaglianza in riferimento a detto profilo.

Nel caso di specie, assunti come primi due termini del confronto lo status di docente universitario (disciplinato dal d.P.R. n. 382 del 1980) e l’art. 3 della Costituzione, il tertium comparationis è, invece, costituito dallo status di docente universitario medico operante in regime di convenzione, connotato dalla compatibilità del regime di tempo-pieno (che comporta l’obbligo di svolgere attività per 350 ore l’anno, anziché per 250) con l’attività libero-professionale.

Pertanto, se l’elemento comune è costituito dall’identità delle posizioni, comune a tutti i docenti universitari deve essere lo status, anche quanto alla disciplina delle incompatibilità.

3.2. —La circostanza che l’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, stabilisce la compatibilità dell’attività libero-professionale con il regime del tempo-pieno, purché espletata “fuori dell’orario di lavoro all’interno delle strutture sanitarie o all’esterno delle stesse” e con esclusione di quelle convenzionate, ad avviso dei ricorrenti, non può far escludere la lamentata violazione, concernendo mere modalità operative caratterizzanti una determinata professionalità, in ragione delle proprie specifiche caratteristiche.

 

La verifica del rispetto del principio di uguaglianza, poiché implica il controllo della ragionevolezza delle classificazioni legislative, non si risolve nel riscontro dell’intrinseca bontà delle scelte operate dal legislatore, ma richiede si accerti la coerenza delle differenziazioni, valutata nel rapporto con il trattamento che le leggi riservano ad altre categorie e ad altre fattispecie comparabili con quella contestata.

Nel controllo dell’osservanza di tale canone costituzionale non sono, quindi, coinvolti due soli termini, la norma legislativa impugnata ed il principio stabilito dall’art. 3, primo comma, della Costituzione, bensì anche un terzo termine (tertium comparationis), costituito dalla disciplina o dalle discipline messe a raffronto con quella di cui si eccepisce l’illegittimità. Attraverso tale confronto, qualora si chieda l’estensione di un beneficio conferito dalla legge ad una certa classe di soggetti che assume trovarsi in condizioni analoghe, è possibile accertarne l’eventuale irragionevolezza, nel caso dalla norma derivino privilegi per determinate categorie, in carenza di ogni valida giustificazione.

L’omogeneità delle situazioni impone, quindi, l’uniformità della disciplina, in difetto di ragioni che possano legittimarne la diversità.

La richiesta estensione dell’ art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, non esclude, infine, l’obbligo di esercitare l’attività libero-professionale “al di fuori dell’orario di lavoro” e la norma derivante dalla eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale risulterebbe, dunque, anche compatibile “con l’assolvimento dei propri compiti istituzionali”, che costituisce il presupposto che ne condiziona l’espletamento in caso di opzione per il regime del tempo-pieno.

3.3. —Le parti private, in prossimità dell’udienza, hanno depositato memoria, e, nel reiterare le argomentazioni già svolte, deducono che peculiare rilievo assume la considerazione del carattere innovativo della norma in parte qua, conseguita dalla modificazione della disciplina stabilita per i medici-ospedalieri e non giustificata da ragioni attinenti allo status dei docenti universitari-medici.

 

Inoltre, a loro avviso, la progressiva restrizione dell’incompatibilità tra tempo-pieno ed attività libero-professionale, realizzata attraverso la previsione dell’ammissibilità di quella svolta in favore di enti pubblici da parte di tutti i docenti universitari e, successivamente, di quella espletata anche in favore dei privati dai docenti-medici, inficia la stessa ratio che impronta la regola dell’incompatibilità e le ragioni che potrebbero limitarla nei confronti di alcuni.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale neppure determinerebbe effetti pregiudizievoli per l’erario, non solo e non tanto per l’esiguo numero dei docenti che potrebbero invocarne l’applicazione, quanto perché la liberalizzazione dell’attività condurrebbe addirittura ad un incremento del gettito fiscale, in diretta conseguenza dell’ampliamento della base imponibile.

Le parti private osservano, infine, che non influisce sulla rilevanza della questione l’innovazione introdotta dall’art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, perché la norma, al comma 5, ha espressamente fatta salva la disciplina dettata dall’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991 e stabilito che l’opzione per l’attività libero-professionale intramuraria preclude l’espletamento di quella extramuraria.

4.  —L’Avvocatura dello Stato ha parimenti depositato memoria in prossimità dell’udienza, reiterando l’eccezione di inammissibilità della questione, per difetto di motivazione sulla sua rilevanza ed insistendo, in linea gradata, per la sua l’infondatezza.

 

Il personale medico dei ruoli universitari, che espleta attività assistenziale, assume i diritti ed i doveri stabili a carico dei medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale (art. 162 del d.P.R. n. 382 del 1980), sicché l’applicabilità della norma censurata deriva logicamente conseguenziale dal particolare status che li caratterizza.

Pertanto, ad avviso dell’Avvocatura, non è configurabile la lamentata disparità di trattamento, dato “che per il personale di cui all’art. 102 l’incompatibilità dell’attività libero-professionale viene riferita al tempo-pieno dell’attività assistenziale avente natura diversa rispetto al regime di impegno a tempo-pieno dei docenti di altre materie”, i quali possono comunque espletarla optando per il tempo-definito.

In conclusione, i docenti universitari medici, in virtù della duplice funzione assolta, si trovano in una posizione non comparabile con quella degli altri docenti e, quindi, difetta la condizione necessaria per poter sostenere l’esistenza della denunziata disparità di trattamento.

5.  —All’udienza pubblica le parti private e l’Avvocatura dello Stato hanno insistito nelle conclusioni rassegnate nelle difese scritte.

 

Considerato in diritto

 

 

1.  —La questione di legittimità costituzionale proposta dall’ordinanza in epigrafe riguarda la norma dell’art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991 n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), nella parte in cui non estende a tutti i docenti universitari a tempo pieno la possibilità di espletare attività libero-professionale. La norma, della cui legittimità costituzionale si dubita, perseguirebbe infatti, secondo i giudici rimettenti, lo scopo di equiparare, per quanto attiene alla compatibilità dell’attività libero-professionale con il regime del tempo pieno universitario, la posizione dei medici universitari operanti nelle cliniche universitarie con quella dei medici ospedalieri. La equiparazione operata dalla suddetta norma, però, porrebbe in luce una ingiustificata diversità di trattamento, sotto il prospettato profilo dell’espletabilità dell’attività libero-professionale, tra i predetti docenti della Facoltà di medicina ed i docenti delle altre Facoltà, così da porre il dubbio della violazione dei principi di eguaglianza e di buon andamento dell’amministrazione, stabiliti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione.

 

2.  —La questione non è fondata, in riferimento ad entrambi i profili prospettati.

 

La premessa dell’ordinanza di rimessione è che non esiste alcun plausibile criterio che giustifichi una diversità di trattamento legislativo della compatibilità tra il tempo pieno e l’attività libero-professionale, a seconda che i docenti universitari svolgano o meno un’attività di assistenza sanitaria; comunque non può esserlo, di per sé solo, il criterio di equiparazione dei docenti universitari medici, che operano nelle cliniche, ai medici ospedalieri.

Tale premessa non è condivisibile, poiché la specialità della norma impugnata, che concerne il regime delle incompatibilità e delle attività libero-professionali del personale medico del Servizio sanitario nazionale, in cui rientrano anche i medici universitari che esplicano attività sanitaria assistenziale, non consente il raffronto con il prospettato tertium comparationis, poiché la predetta norma fa corpo unico con una complessiva disciplina, che, quanto ad oggetto, caratteri e finalità, non appare comparabile con altra disciplina, per difetto di omogeneità. Si consideri infatti che la disposizione in questione è un frammento di un più ampio sistema normativo, che regola, in particolare, forme e limiti delle prestazioni di assistenza sanitaria ospedaliera. E’ in questo contesto specifico, pertanto, che la norma impugnata deve essere sottoposta allo scrutinio della Corte.

3.  —La “compenetrazione” tra l’attività sanitaria assistenziale e quella didattico-scientifica dei docenti universitari della Facoltà di medicina, che operano nelle cliniche e negli istituti universitari di ricovero e cura, è appunto il dato caratterizzante le loro funzioni ed il conseguente stato giuridico. Ed è già stato posto in luce dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze nn. 103 del 1977, 126 del 1981, ordinanza n. 239 del 1990), come proprio questo profilo connoti il complessivo andamento della legislazione in materia. Si può affermare infatti che il collegamento tra istituti universitari di ricovero e cura e strutture ospedaliere, da un lato, ed il connesso raccordo tra esigenze didattico-scientifiche ed esigenze di assistenza ospedaliera, dall’altro lato, siano una costante del sistema, anche se attuata in forme e modalità profondamente diverse ad iniziare dalla legislazione dell’Ottocento per finire a quella dei nostri giorni.

 

In questo senso, si può dire che già nel r.d.l. 10 febbraio 1924, n. 549 si consolida la tendenza, instaurata dalla legge 17 luglio 1890, n. 6972, ad un rapporto di sostanziale strumentalità, su base convenzionale, delle istituzioni ospedaliere rispetto agli istituti universitari -dando luogo a forme di c.d. “clinicizzazione degli ospedali”- e, in questo quadro, va rilevato che i sanitari universitari, che sono investiti della direzione e della responsabilità dei reparti clinico-ospedalieri, sono peraltro tenuti a prestare in essi servizio, dimostrando così la stretta connessione tecnica fra ricerca scientifica, insegnamento clinico e cura degli ammalati.

La riforma ospedaliera del 1968 sviluppa e rafforza le forme di necessaria partecipazione delle Facoltà di medicina all’erogazione dell’assistenza sanitaria, poiché, come si legge nei relativi lavori preparatori, uno degli obiettivi principali è proprio “la promozione della massima integrazione e collaborazione, nel rispetto reciproco, dell’ospedale con l’università, nell’interesse supremo del malato, per l’esigenza della salute pubblica e per il progresso della medicina”. In questo contesto di un più efficiente perseguimento del fondamentale interesse della collettività alla tutela della salute, garantita dall’art. 32 della Costituzione, non appare quindi irragionevole che il legislatore abbia disposto, nell’art.1, terzo comma, della legge 12 febbraio 1968, n. 132, che le cliniche e gli istituti universitari fossero funzionalmente tenuti all’assistenza ospedaliera, chiamando così l’università, con le sue cliniche, i suoi istituti, il suo personale sanitario addetto agli ospedali, totalmente o parzialmente clinicizzati, a dare un prezioso contributo al conseguimento di questo obiettivo (sentenza n. 103 del 1977).

E non appare altresì irragionevole che il personale sanitario universitario venga assimilato nelle qualifiche al personale sanitario ospedaliero e che ad esso si applichino “diritti e doveri” dei sanitari ospedalieri (art. 3 del d.P.R. n. 129 del 1969), così da rendere i medici universitari “soggetti agli obblighi ed alle responsabilità inerenti all’esercizio delle relative funzioni” (sentenza n. 126 del 1981). In questa ottica, appare pertanto congruo e ragionevole che ad essi siano state estese, fin dall’art. 24 del d.P.R. n. 130 del 1969, modalità di prestazione del servizio dettate per questi ultimi, a cominciare dalla opzione tra il servizio “a tempo pieno” e quello “a tempo definito”, per finire alle relative incompatibilità rispetto all’espletamento dell’attività libero-professionale.

Si tratta quindi di disposizioni non isolate, ma inserite in un coerente disegno legislativo, che si propone, in particolare, di adeguare ordinamento interno e modello organizzativo dei servizi di assistenza delle cliniche e degli istituti universitari di ricovero e cura ai corrispondenti servizi ospedalieri.

4.  —D’altra parte, anche nella normativa inerente alla istituzione del Servizio sanitario nazionale è evidente il mantenimento della stessa ratio, poiché sono rinvenibili disposizioni (art. 47, comma terzo, numero 7, della legge 23 dicembre 1978, n. 833, art. 31 del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761), le quali espressamente stabiliscono l’omogeneità del trattamento economico complessivo e degli istituti normativi di carattere economico del personale sanitario del ruolo regionale con quelli del personale sanitario universitario. Più in particolare, per quanto concerne la disciplina del rapporto a tempo pieno e a tempo definito ed i connessi limiti di svolgimento dell’attività libero-professionale, l’art. 35 del d.P.R. n. 761 del 1979 ne prevede l’applicabilità anche ai docenti universitari medici, sia pure con la precisazione che il loro orario settimanale di servizio, comprensivo delle mansioni didattiche, di ricerca e assistenziali, è globalmente considerato corrispondente rispettivamente al rapporto di tempo pieno o definito, confermando così ulteriormente la “compenetrazione” tra i diversi profili dell’attività dei medici universitari.

 

Si consideri inoltre, per quanto può rilevare ai fini di una più compiuta analisi della ragionevolezza di questa disciplina, che la prospettata tendenza legislativa, già sottolineata da questa Corte, ad integrare le Facoltà universitarie di medicina (con le relative risorse umane e materiali) nel complessivo disegno di realizzazione dei fini propri del Servizio sanitario nazionale è ancor più rafforzata dalle disposizioni della successiva legge 23 ottobre 1992, n. 421 e del relativo decreto delegato 30 dicembre 1992, n. 502. Si stabilisce infatti che i policlinici universitari, inseriti nel sistema di emergenza sanitaria, costituiscono aziende universitarie dotate di autonomia e le cui modalità organizzative e gestionali, pur nel rispetto dei fini istituzionali, debbono essere analoghe a quelle fissate per le aziende ospedaliere. Si conferma quindi, anche in queste disposizioni, la scelta legislativa per un peculiare modello organizzativo sanitario, che ovviamente comprende anche le norme sulle prestazioni professionali e sulle relative incompatibilità del personale sanitario.

5.  —Va altresì osservato che la particolare caratterizzazione dell’attività del personale docente, che esplica attività assistenziale presso le cliniche e gli istituti universitari di ricovero e cura, trova specifico rilievo e significativa conferma anche nella legislazione sulla docenza universitaria. Basti considerare soltanto che la legge delega 21 febbraio 1980, n.28, da un lato, contiene, nell’art. 4, statuizioni sull’attività didattica e di ricerca di tutti i docenti universitari, ivi compresi ovviamente i medici universitari, dall’altro lato, nell’art. 12, lettera c), prevede che a questi ultimi - e solo ad essi - si applichino anche le norme relative ai diritti ed ai doveri, per quanto concerne l’assistenza, del personale del Servizio sanitario nazionale. In attuazione di questa disposizione, l’art. 102 del decreto delegato 11 luglio 1980, n. 382 stabilisce appunto che i predetti docenti “assumono, per quanto concerne l’assistenza, i diritti ed i doveri previsti per il personale di corrispondente qualifica del ruolo regionale” e che il loro rapporto di lavoro “può essere a tempo pieno o a tempo definito secondo le disposizioni previste dall’art. 35 del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761”.

 

Questa disposizione riconosce dunque la speciale posizione, sotto il profilo delle modalità di prestazione dell’assistenza sanitaria, dei docenti universitari medici e, attraverso il rinvio formale alla norma di legge che detta le regole dei regimi di tempo pieno e definito espressamente applicabili al personale medico del ruolo regionale, assume dunque un chiaro contenuto derogatorio della generale disciplina delle incompatibilità e degli impegni propri di tutti i docenti universitari. Lo stesso art. 102 costituisce quindi, anche se sotto altro profilo, ulteriore conferma della coerenza del complessivo disegno legislativo, che, sulla base dell’inserimento delle Facoltà di medicina nell’articolato apparato preposto al conseguimento degli obiettivi del Servizio sanitario nazionale, non può non tener conto delle peculiarità dell’apporto garantito dalla loro struttura e dal loro personale, al fine di prevedere una disciplina, che mantenga l’organicità e la funzionalità del sistema.

In questa ottica, è quindi ragionevole che la disciplina della posizione dei medici universitari sia condizionata dalle esigenze organizzativo-funzionali dei servizi di assistenza, cui sono preposti; esigenze tanto più rilevanti, quanto più diviene intensa la partecipazione funzionale delle Facoltà di medicina al Servizio sanitario nazionale.

6.  —Sotto questi profili, dunque, va confermata la precedente giurisprudenza di questa Corte, che aveva già dichiarato che “non può non riconoscersi al legislatore, in sede di riforma dell’assistenza ospedaliera pubblica, la potestà di ampliare e potenziare l’apporto, in tale ambito, delle università, e di disciplinare all’uopo in modo unitario l’omogeneo rapporto di servizio assistenziale del personale sanitario ospedaliero ed universitario, fatto salvo per quest’ultimo l’adempimento dei compiti didattici e di ricerca scientifica” (sentenza n. 103 del 1977). In questo quadro pertanto la norma censurata non determina alcuna irragionevole disparità di trattamento.

 

D’altra parte, il legislatore ha disciplinato le incompatibilità dei docenti universitari medici in modo autonomo rispetto agli altri docenti universitari e molto prima della legge n. 412 del 1991, dato che già il d.P.R. n. 129 del 1969 aveva per essi previsto forme di incompatibilità sconosciute agli altri docenti universitari (ma ritenute non illegittime da questa Corte nella stessa sentenza n. 103 del 1977), anche in considerazione dell’obiettivo di coordinamento e potenziamento dell’apporto dell’università ai fini della tutela della salute.

Le peculiari finalità perseguite dalla norma censurata, in un quadro di ragionevole “compenetrazione” tra attività didattico-scientifica ed attività assistenziale, appaiono quindi congrue e tali da escludere anche possibili incidenze negative sul canone di buon andamento dell’amministrazione.

 

P.Q.M.

 

LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 maggio 1997.

 

Renato GRANATA, Presidente

Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore.

 

Depositata in cancelleria il 16 maggio 1997.